giovedì 9 febbraio 2017

Stati di depressione e whisky 13



Mi sedetti di nuovo con le mani tra i capelli. Volevo solo stare solo, era così difficile?
La cameriera tremava ancora, parlava concitata al cellulare, non la finiva di blaterare in una lingua che forse non avrei capito neanche se mi fossi interessato a quel che diceva. Cominciò a piangere e la guardai in faccia per la prima volta.
Non era così vecchia. Non era così giovane. Non era niente. I suoi lineamenti non erano definti, era come guardare con la coda dell'occhio qualcuno che passasse di fretta. La sua figura si allungò, il collo soprattutto. Ancora Modigliani. Si alzò e si avvicinò a me. Ripresi la bottiglia e guardai la vecchia non più vecchia negli occhi, cercando di fermare il suo volto col pensiero, di accorciarle il collo con l'istinto. Continuava a masticare la gomma. Bevvi un altro lungo sorso, sentii russare una bambina.
La cameriera allungò una mano verso il mio braccio e mi ritrassi, non avevo più voglia di spiegare che odiavo mi si toccasse, non avevo voglia di disidratare a morte nessuno.
Fece uno scatto incredibilmente veloce per un pupazzo umano e mi afferrò la spalla. Più che afferrarla la avvolse con una mano, senza premere. Sentivo che mi teneva e non mi lasciava andare, ma non c'era contatto, solo una lieve e fresca pressione. Cercai di allontanarmi, alzandomi e indietreggiando, cercando di togliere dal braccio quella cosa innaturale che premeva, grattando via con le dita della mano destra, quella che non teneva la bottiglia. Il suo braccio si allungava e diventava sottile, trasparente. Dei soffi di pelle di dilatarono sul suo viso come se sorridesse, un viso che perdeva colore e consistenza. Non diventò sabbia, non si solidificò o crollò in piccoli granelli. Avevo forse perso il mio tocco anti tocco? Mi sentii sollevare, la donna attraversò il bancone spostando l'aria che ora erano diventati i suoi piedi. Non toccava il suolo, non toccavamo il suolo.
Ba'al russava, Larish pure. Per una volta avevo bisogno di quei due e dormivano. Demoni del cazzo, al risveglio avrei trovato un modo per far loro una ramanzina. Corpo mio, regole mie.
Quella cosa mi trasportava in una sorta di tunnel d'aria portatile, mi spostò nel locale come fossi un palloncino e mi fece attraversare tutto il bar fino al retro, dove delle scale si nascondevano dietro una porta scura. La porta si aprì dolcemente verso l'interno, spinta dal nulla. Lei stava dietro di me e non diceva una parola, si sentiva solamente soffiare dolcemente. Tanto valeva stare al gioco, ci avrei pensato più tardi, al momento non potevo fare altro. Presi un'altra sigaretta e la accesi, lo zippo per fortuna resse quel vento spostagente. 
Aspirai, ed espirando vidi il fumo che si confondeva con i vortici invisibili su di me e sotto le mie zampe levitanti. Di nuovo un altro sorso di vodka. Larish ruttò nel sonno. In quel preciso istante il vento si fermò per un secondo, come avesse il singhiozzo, e sentii il vuoto. Ripresi subito a levitare, come se fosse passata dell'esitazione.
Mi ritrovai sul tetto del locale, alla luce di un sole pomeridiano ancora troppo lontano dal tramonto. Finite le scale continuammo a salire, la cosa non parlava, gli edifici si fecero più lontani e la temperatura si abbassò notevolmente. Incrociai le gambe come un maestro di kung-fu annoiato e attesi. Passarono ore, il sole non tramontava perché andavamo nella sua direzione, la vodka stava finendo e non avevo che poche sigarette. Speravo che all'arrivo ci fosse almeno un distributore automatico e una rivendita di alcolici. Sorvolammo il mare o un lago gigante, non ho idea di cosa fosse perché cominciai a perdere conoscenza, il sonno accumulato si fece sentire. Sentii un soffio più dolce, mi addormentai senza lasciare la bottiglia.
Accanto a me Mel stava affilando Duenna su una roccia e i suoi capelli non smettevano di muoversi, mi sentivo osservato e non ero tranquillo. Cercavo di parlare, ma dalla mia gola di pietra non usciva nessun suono, non sentivo neanche il raschiare della lama sulla pietra. Ecate abbaiava al cielo, abbaiava senza abbaiare. Larish starnutiva nella schiena, lo capivo dai colpi che spingevano le mie ossa in avanti. Non lo avevo mai visto, ma la terra me ne aveva parlato tante volte, quando gli alberi cadevano su di lei, quando si spostava senza essere toccata. Sentii la sua presenza su di noi, ci osservava senza parlare e senza farci parlare. Urlai e non si scompose. Gli feci cadere una montagna addosso e la attraversò tra le crepe. Non si mosse mai e si muoveva sempre. Si allargò in una linea sottile e una nuvola mostrò bianchi denti di vento prima di avvitarsi su se stessa e scomparire dividendosi nel cielo. Speravo mi lasciasse in pace e mi facesse tenere quel che mi spettava: che si tenesse il cielo.
- Sveglia! Jack! Sveglia! Fame! Dai, voglio giocare a mangiare! Dai, dai, dai, dai! Uffa, sei noioso! Jaaaack!
- Umano, alzati e rispondi a Ba'al!
- Ho ancora della vodka e mal di testa. Larish, non mi rompere i coglioni. Ba'alordo, posso trovare un altro modo per prenderti a calci in culo. Silenzio.
Si zittirono bofonchiando qualcosa. Era troppo facile essere coraggiosi se dormivo.
Mi massaggiai la testa, l'irritante voce di quei due faceva più male di tutto l'alcool che avevo in corpo, mai abbastanza per farli smettere. Aprii l'occhio e sentii subito aria fredda scorrere sulla congiuntiva intatta. Ero sulla cima di una montagna altissima, il freddo che sentivo stavolta era naturale. Mi guardai intorno e mi aggrappai subito a una roccia che sporgeva li accanto, le vertigini non erano ottime compagne di vita e da ubriaco era più facile gestirle. Ba'al si mise a ridere e smise immediatamente quando feci finta di portarmi alle labbra la bottiglia. Larish singhiozzò di spavento. Risi io stavolta.
Cercai di alzarmi piano, le gambe tremavano e la barista era scomparsa. Era giorno e il sole stava appena sorgendo: avevo viaggiato tutta la notte.
Appena fui in piedi le nuvole che circondavano la cima del monte rotearono e si disposero in forme geometriche distinte, formarono una sorta di costruzione che sembrava solida. La pressione che esercitata l'aria sui vapori nuvolosi o come cazzo si chiamavano quelle cose bianche, le rendeva più dure dell'acciaio.
Era un palazzo enorme, bianco e profondamente pacchiano, roba adatta a una bambina golosa di zucchero filato. Una porta davanti a me si spalancò e rimasi fermo. Ba'al tremava.
- Che demone cagasotto che sei.
- Tu non sai chi stiamo per incontrare.
- Uno che come voi rompe il cazzo di sicuro.
- Io ho fame però...
- Larish, se stai zitta ancora un po' te lo darò in pasto.
- Non sai cosa dici, umano! Larish, tu sai chi è!
- Ma se dico qualcosa non mi da pappa... Voglio giocare a mangiare!
- Mi stai più simpatica di corna gialle.
- Yuppi! Jack mi vuole bene, Jack mi vuole bene e a te no!
- Non ho detto questo. Zitta.
Sentii Ba'al abbassare la testa, la sua ex spada stringeva delle labbra immaginarie. Cominciai a camminare verso l'entrata.
Una rampa di scale bianca e larghissima saliva verso una cupola trasparente, al cui centro spuntava una sorta di trono vaporoso. Il proprietario era un egocentrico col pisello piccolo. Mi fermai a metà strada. Il trono si mosse e lo schienale si sollevò, come se fosse vivo e cercasse di guardare cosa stessi facendo. Ba'al trattenne il fiato. Mi voltai di profilo e mi avvicinai alla parete.
- No! No! Jack, umano, ti prego, no!
Abbassai la zip dei jeans.
- Smettila, ti prego!
Bucai la parete col getto di urina. Lo schienale del trono si scosse, si gonfiò e si ricompose immediatamente. 
Chiusi la zip e ricominciai ad avanzare, dopo pochi metri arrivai davanti a un trono vuoto. Accesi un'altra sigaretta.
La penultima.
Una voce asmatica e profonda percorse tutta la lunghezza delle pareti, il buco piscione si richiuse e le prime sillabe mi colpirono i timpani:
- Hai profanato il mio palazzo, mortale.
- Dov'è la barista? Ho bisogno di ghiaccio.
- La barista era una mia proiezione, ti teneva d'occhio.
- Quindi il ghiaccio me lo puoi dare tu?
- Sai chi sono io?
- So che ho imprigionato il cazzone della terra, che il fuoco si è spento e che le mie sigarette stanno finendo.
- Quindi sai che elemento sono.
- Sì. Sei i peti.
Il palazzo tremò, cercai di stare in equilibrio e bevvi l'ultimo sorso di vodka. Ormai non avevo più voglia di stressarmi, volevo davvero solamente stare a casa o in un bar. La bottiglia vuota mi guardò con tristezza, il palazzo smise di muoversi e ruttai. Guardai il trono, che si trasformò in una forma umanoide con i pantaloni a zampa d'elefante spumoso che fluttuava verso di me. Si immobilizzò sbuffando a qualche centimetro dalla mia faccia fumante di tabacco.
- Sono Anemos, l'aria.
- Sono Jack. Hai da bere?
Soffiò, la penultima sigaretta mi sfuggì dal labbro e cadde nel nulla. Larish tremò. Ba'al tremò. Io tremai. 
Tremai in una maniera diversa, i demoni dentro me non tremarono a causa dell'uomo peto, ma sentirono di nuovo la furia che li aveva imprigionati. Il mio pugno colpì solo aria, granelli di sabbia si sparsero nel vuoto come coriandoli che non avevo lanciato io. Larish aveva fame e ogni volta che sfioravo l'essenza di Pet-Anemos questa veniva risucchiata e trasformata in rena. Non aveva paura, poteva attingere energia da tutta l'aria dell'atmosfera. Dovevo trovare in fretta un modo per farlo cadere nell'oblio.
L'ossigeno era ormai un ricordo, già rarefatto a quell'altitudine. Lo spirito scorreggione pareva riuscire a manipolare anche la presenza del gas vitale attorno a me. Forse solo una cosa gli sfuggiva: non avevo più bisogno di aria: la terra che avevo in corpo poteva vivere senza.
Non mollavo ancora la bottiglia, la tenevo stretta senza sapere il perché. Lo spirito soffiava, riuscivo a schivare senza problemi le mani cubiche che mi venivano incontro. Le pareti del palazzo si facevano più vicine. In fretta, dovevo ragionare in fretta e trovare una strategia o sarei finito schiacciato, spappolato in aria a chissà quanti metri d'altezza.
Un attimo: l'aria non mi serviva. Non ne avevo in me e la sigaretta era finita. Cominciai ad aspirare forte. Senza pausa, con tutte le forze che avevo in corpo e nei miei polmoni stanchi. Un imbuto cominciò a formarsi verso le mie labbra, cercava di resistere alla pressione che riuscivo a esercitare, una pressione pesante come le montagne, più forte dell'acciaio i cui elementi risiedevano nelle profondità del terreno. Le mie guance si gonfiarono, non rimase niente di Anemos fuori da me. Il palazzo perse consistenza e mi sentii precipitare.
Lo sentivo scalciare, farsi strada per raggiungere il mio occhio bucato mentre precipitavo e acquistavo velocità. 
Avvicinai la bottiglia vuota alle labbra e soffiai dentro tutto quello che avevo aspirato. Tappai con il pollice l'imboccatura e sentii immediatamente qualcosa che pungeva la pelle: il bastardo cercava di uscire attraverso il mio dito. L'attrito dell'aria sulla pelle del viso mi riempiva di spine invisibili, il giubbotto sbatteva e faceva un chiasso tremendo sulla mia schiena e a un tratto ricordai:
- Larish, hai ancora fame?
- Se parlo no pappa...
- Ora puoi mangiare! Mangia Anemos!
- Larish mangiaaa!
La bottiglia diventò subito pesante, da vuota e trasparente che era diventò marroncina, granulosa, il vetro si dissolse con la stessa velocità della mia caduta. Larish non riuscì a trattenere un ruttino delicato, era come se la sentissi mettere una mano davanti alla bocca. Era sazia. Ba'al non riusciva a capire, intuivo la sua confusione. E stavo precipitando. Un chilometro circa e mi sarei schiantato al suolo, vedevo le case di un villaggio e stavo puntando dritto su un fienile.
- Umano senza rispetto!
Ba'al fece sentire la sua voce dopo tempo, una mano invisibile si mosse dentro me e seguì il fianco della montagna, grattandolo come fosse soffice neve. Una frana si abbattè velocemente accanto al villaggio, per fortuna senza distruggere niente di abitato o abitabile. Ba'al sapeva che mi sarei incazzato e qualcosa lo fermava dal disobbedire ai miei impulsi.
Colpii il terreno pendente con forza, molta meno di quella che pensavo avrei usato per colpire terra a quella velocità e rotolai fino ai piedi del villaggio.
Mi alzai lentamente, non c'era più fretta. Con qualche colpo di mano mi levai la polvere dagli abiti e mi diressi verso una capanna che aveva un'insegna di legno con il più esplicito dei disegni: un boccale di birra schiumoso.
Entrai, mentre gli abitanti erano ancora fuori a contemplare stupiti una valanga che avrebbe potuto ucciderli in un istante. Un uomo corpulento si affrettò ad andare dietro un alto tavolo che faceva da bancone, davanti a uno scaffale polveroso e tarlato che aveva come ospiti dei boccali e qualche bottiglia scura. Mi sedetti su un'alto sgabello e indicai una bottiglia color caramello e un boccale polveroso.
- Quello non posso farglielo usare, signore.
- Perché?
- Dice la leggenda che ci bevve un vecchio che non aveva un braccio e che sopravvisse a una battaglia da cui nessuno tornò. Si dice che abbia ucciso tutti.
- Nome?
- Si faceva chiamare Zephir.
- Era amico mio, dai qua e riempilo fino all'orlo.
Il ciccione capì che non era il caso di protestare oltre, sembrava sentire qualcosa. Forse davvero era ora di ammettere tutto, ero troppo stanco di questo ed ero sempre stato troppo vecchio per queste cazzate. Larish riposava e faceva le fusa, Ba'al era in attesa senza sapere il perché. La voce franosa mi vibrò nei timpani mentre il primo sorso scorreva bruciante in gola:
- E adesso?
- Dimmi chi manca.
- Sedna, il mare e le acque. Poi la luce, di cui non so il nome.
- Poi?
- Non lo so, conosco solo questi...
- Li faremo fuori tutti e finalmente potrò aver un po' di pace.
Feci un cenno all'oste, tirando fuori il pacchetto con l'ultima sigaretta e mostrandoglielo. Annuì e ne tirò fuori un altro da un cassetto del tavolo-bancone. Gli altri abitanti tornarono alle loro case e alcuni si sedettero ancora ai loro posti al bar, guardandomi curiosamente mentre chiedevo altri due pacchetti di paglie al proprietario e parlavo da solo con Ba'al.
Sorseggiai ancora, il ciccione mi guardò. Tirai fuori il portafoglio e con un sospiro gli regalai una banconota da cento. Non mi servivano più neanche i soldi.
- Umano, dimmi perché.
- Perché cosa?
- Perché mi hai dentro e nessuno mi può intrappolare, perché Mel è morta, perché Anemos è scomparso per Larish che non riuscirebbe a mangiare l'aria. Perché?
Accesi la sigaretta del pacchetto ormai vuoto e aspirai avidamente. Guardai le travi del soffitto, che prima o poi sarebbero diventate polvere assieme a tutto il resto.
- Il fuoco si spegne in fretta, caro testa di cazzo. Muore per primo. Segue l'aria. L'acqua verrà poi e la terra è molto più longeva, rimane quando tutto è andato via.
- Cosa vuoi dire?
- Gli spiriti che impersonano questi elementi sono più giovani degli elementi stessi, quindi non scompare la materia da cui sono nati. Puoi stare tranquillo.
- Umano, cosa diamine stai dicendo?
- Chiamami umano quanto vuoi, ma il mio nome è Jack Pendra e volevo solo ubriacarmi e farmi una ragazza dai capelli rossi.
Le idee di Ba'al vorticavano confuse e cercavano di scoprire qualcosa indagando nei miei pensieri.
- Ti sei mai chiesto perché sei riuscito a entrare dentro di me e perché hai perso i ricordi fino a che non sei uscito?
- No. Lo avevo scelto io.
- Anche tu hai l'arroganza dei bambini.
- Basta, umano! O Jack, come ti vuoi far chiamare! Ti ordino di spiegarmi!
- Ci sarò sempre, Ba'al.
Spensi la sigaretta sul bancone prima che l'oste mi avvicinasse un posacenere scheggiato in cui forse Zephir aveva svuotato la sua pipa credendo di esser troppo vecchio nella sua giovane età.
- Io sono il Tempo.

mercoledì 24 agosto 2016

Stati di depressione e whisky.12.


Mi alzai lentamente, un sorriso sadico mi si allargava sulla faccia. Distesi le braccia e scrocchiai collo e dita, il viola delle vene sulla parete pulsava. Cominciai a mordere con calma, cercando di abituarmi al sapore di quello schifo di morte putrefatta. Ogni pezzo che staccavo con i denti si scioglieva nella mia bocca e veniva assorbito, la sabbia rosa che usciva dalla ferita al braccio diventò liquida di nuovo e cominciai a guarire. La mia pelle pulsava con le vene viola che diminuivano di volume e si essiccavano ogni volta che mordevo. Ora più forte, più veloce. La luce della caverna si affievoliva e il buio prendeva il suo posto, un buio rosso che mi copriva l'occhio. Tutto cominciò ad agitarsi come fossi stato all'interno di un uovo e qualcuno cercasse di farci una frittata senza romperlo. Mi tenevo stringendo ancora con i denti, venivo sbalzato dappertutto e non mollavo la presa. Mi aggrappai a qualche roccia come una cozza e continuai a mordere. Staccavo gelatina, terra, sassi. Ogni volta che inghiottivo mi sentivo più feroce, più pesante, più forte. La grotta si agitava e si contraeva con più frenesia: Ba'al si era accorto di cosa stesse succedendo e non poteva reagire. Le zampe dei testorpioni scavavano ora l'apertura della nicchia, i grandi e i piccoli si erano messi d'accordo per raggiungermi. Mangiai così tanta parete da non capire da quanto tempo lo stessi facendo. La testa di una di quelle creature, che probabilmente erano il sistema di difesa interno del demone ormai prossimo ai calci in culo, cercò di farsi largo nella fessura, ormai già grande abbastanza per farla entrare.
Un piccolo buco apparve con l'ultimo morso che diedi prima che mi raggiungesse uno dei testorpioni più grandi, a cui assestai un calcio sul torace. Si frantumò e gli altri si fermarono. Si fermò tutto. Cominciai a sentire le voci che provenivano dall'esterno. Risi forte di vendetta e la stanza tremò. Sentii urla rabbiose simili a una frana, urla impaurite che scoppiettavano, guaiti e ululati. Ricominciai a mangiare la parete e le vene, ormai quasi spente. Allargai l'apertura, ancora troppo piccola per le spalle e la testa, abbastanza per far uscire un braccio. Qualcosa mi morse, qualcosa di bollente che mi fece sciogliere la mano. Guardai il moncherino fuso senza pensarci troppo. Curiosamente, si stava formando di nuovo con granelli di sabbia rossa che si arrampicavano su se stessi per formare immediatamente una nuova mano. Ottimo.
Trascorse qualche minuto di masticazione. Le urla erano meno intense, sentivo ancora guaiti sempre meno convinti, affannati. Ero quasi sazio. Un ultimo morso e riuscii a portar fuori la testa, il busto e le braccia. Ero nel mio appartamento e guardavo Ba'al in faccia.
Un cane nero come la pece si agitava e abbaiava verso una donna che fumava da tutto il corpo, sdraiata di schiena sul mio letto. La faccia terrosa di Ba'al fu sufficiente a farmi ridere ancora, le gocce di sudore freddo che accompagnavano la sua espressione stupita e spaventata venivano subito assorbite dalla pelle fangosa. Salutai:
- Ciao, montagna di merda!
Gli azzannai l'occhio. Ancora lo mangiai dall'esterno, come aveva fatto con me. Ocra per ocra, oserei dire. Distrussi testa, spalle, braccia e per ultime consumai le mani, come se stessi mangiando una seconda pelle. Per terra sabbia e vetro, probabilmente formatosi al contatto con l'altra cosa. Ero di nuovo io, ma senza un occhio. Ed ero nudo di nuovo, non eccessivamente presentabile con una donna sconosciuta davanti. Il cane ancora abbaiava.
Andai in bagno, presi un asciugamano e me lo avvolsi attorno alla vita, facendo finta di essere appena uscito da un bagno di fanghi. Mi avvicinai alla fumante presenza sul mio letto e mi sedetti accanto a lei, riprendendo fiato. Il fumo che emetteva non aveva nessun odore. Si girò e si coprì con le lenzuola, guardandomi e sorridendo:
- Ciao. Mi stai rovinando il materasso.
Il sorriso le scomparve quando vide il cane che non sapeva se scodinzolare, ringhiare o abbassare le orecchie con la coda tra le zampe. Si avvicinò a me ringhiando sommessamente. Mi annusò la mano e lo guardai negli occhi color ambra. Si avvicinò alla donna barbecue e fece la stessa cosa. Guaì, arretrando con la testa abbassata. Si allontanava e il muro si scioglieva in una rossa melma fangosa, mentre ci si infilava di culo. Entrò fino al naso, guaì un'ultima volta e scomparve assieme alla lava che aveva creato. Apparve una scultura a forma di cane modellata sulla parete. Come l'avrei spiegato alla signora Foster?
Mi alzai e mi rivolsi alla ragazza, che non aveva ancora parlato:
- Sono Jack. Sei a casa mia. Immagino tu voglia fare una doccia e mangiare qualcosa.
- Cos'è doccia?
Ottimo. Quella ragazza, secondo i ricordi di muso franato, era lì dall'inizio. Lo spirito o che cazzo fosse del fuoco non aveva assimilato altre persone come aveva fatto quello della terra, quindi lei era lì dall'inizio. Anni, secoli, forse millenni senza sapere nulla di ciò che fosse accaduto. Anche perché a quei coglioni non interessava tanto cosa succedesse agli uomini e su questo eravamo d'accordo, anche se mi davo anche io del coglione. Insomma, se ne stava sul mio letto, avvolta dal mio lenzuolo, sporca di cenere e credo carbone, mi fissava imbambolata e non sapeva cosa fosse una doccia. Sembrava uscita da un film porno sui barboni. Mi alzai e le feci cenno di seguirmi, che in pratica voleva dire indicare il bagno. Si alzò e fece due passi incerti, non camminava da tanto. Le mostrai come funzionava l'acqua corrente, nel suo stupore nel vedere la pioggia fatta in casa a comando. Le mostrai una saponetta, non sapendo che avrebbe pensato dello shampoo o di un bagnoschiuma e mi allontai, aspettando il mio turno. Mi sedetti sul letto e mi rilassai un attimo. Era tutto finito, adesso avevo il controllo delle mie azioni e potevo continuare a fare quel che desideravo fare dall'inizio: i cazzi miei e bere qualche whisky. Frugai in qualche cassetto e trovai i miei abiti, il portafoglio e con un grugnito di approvazione lo zippo e un pacchetto di sigarette quasi pieno. Ne accesi una e aspirai profondamente. Mi mancava qualcosa e sapevo cosa.
Cercai in tutti gli stipetti del buco in cui vivevo, sotto il letto, nell'armadio e nello zaino custode che stava ancora all'ingresso/porta della camera. Niente, neanche una goccia di liquido rinvigorente. Spensi la sigaretta sul comodino e ne accesi un'altra. Una donna bionda uscì dal bagno completamente nuda e tossii. Presi un altro asciugamano e glielo tirai addosso. Rimase a guardarlo e andai a spegnere l'acqua che aveva lasciato aperta.
Per fortuna un asciugamano non era difficile da capire e si asciugò, mentre cercavo una maglia da farle mettere addosso. Se la mise addosso e per fortuna era abbastanza grande da farle da abito.
- Siediti e aspetta, ora tocca a me. Fai come se fossi a casa mia.
- Claire.
- Bene. Claire, fai come se fossi a casa mia.
- Fame.
- Tra poco andiamo da qualche parte, ho bisogno di bere.
Entrai in doccia e la sigaretta si spense a contatto con l'acqua. Acqua gialla e marrone scendeva terrosa dalla mia pelle, barba e capelli diventarono più leggeri e pipino il grande si sentì più allegro. Uscii e mi asciugai, misi i vestiti e mi guardai allo specchio. A parte l'occhio mancante, non ero tanto brutto. Mi ero lasciato con due occhi, ora solo uno vedeva barba incolta, capelli lunghi e pelle rossastra. Potevo passare per un turista dopo la prima volta in spiaggia ad agosto.
Andai in camera e la grigliata umana stava guardando fuori dalla finestra, ancora rotta da quando mi avevano convinto a fare il gran salto. Letteralmente. Mi sedetti sul letto e mi misi gli anfibi, passai a lei un paio di vecchie scarpe da ginnastica che non avevo mai usato e che le stavano come fosse un clown col baricentro sui talloni. Strappai da un'altra vecchia maglia una striscia di stoffa e la indossai come fosse la benda di un pirata. Potevamo uscire.
- Andiamo.
Aprii la porta, lei faceva fatica a seguirmi sulle scale e mi dovetti fermare parecchie volte per aspettarla. Arrivammo finalmente al portone e nessun rumore si sentiva dall'appartamento della signora Foster. Meglio così. Aprii piano e subito la strada si palesò davanti ai nostri occhi, il continuo scorrere di macchine senza meta in un fiume di asfalto senza meta. Claire si spaventò e si aggrappò subito a me, stingendo forte. Mi girai di scatto e si staccò subito:
- Odio essere toccato!
Ormai però il danno era fatto: mi aveva toccato. Il suo sguardo era terrorizzato e sollevato allo stesso tempo, tremava e non si capiva se lo faceva per paura o gioia. Le sue mani diventarono velocemente sabbia grigia, le sue braccia si sgretolavano e seguirono le spalle, fino a che con un filo di voce sentii le sue ultime parole, ormai sgretolate anch'esse:
- Era ora...
Rimasi per qualche minuto a guardare quel che era successo, la montagnetta di sabbia con la mia maglia e le mie scarpe non ricambiava il mio sguardo. Certa gente non sa proprio come comportarsi.
Uscii e mi incamminai senza pensare ad altro che a un liscio sorso di bourbon, accendendomi un'altra sigaretta e sputando quella umida che avevo ancora tra le labbra. Mi sembrava di non aver fumato da anni e bevuto da decenni. Trovai un bar di quelli che piacciono a me: scuri, bui, in legno scheggiato e che quando si apre la porta ed entra la luce del tramonto i clienti si rintanano in angoli ancora più oscuri. Lasciai il sole morente alle mie spalle assieme alla Lucky Strike e andai a sedermi al bancone. Nessuno ai tavoli, nessuno al bancone: il mio locale ideale. La barista la conoscevo già, probabilmente aveva cambiato posto di lavoro. Chi se ne frega.
- Ciao "tesoro".
- Ehy dolcezza, non ti ho già visto?
- Si. Whiskey, due uova fritte, due toast.
Masticando l'onnipresente gomma e dedicandomi una smorfia da diva anni 30 come credo la sua data di nascita, dopo qualche minuto mi portò il primo bicchiere e il piatto da dopoguerra. Ingollai il whiskey e ne chiesi subito un altro. Quel calore mi diede un brivido che mi fece subito tornare in me, nella mia pelle. Sentii tossire e il bar era vuoto. Forse era stata la cameriera.
Presi una fetta di pane e la addentai. Si sbriciolava.
Con la forchetta portai alla bocca metà uovo e divenne sabbia. Merda.
Una voce acuta, femminile e infantile risuonò nella mia testa:
- Ma io ho ancora fame, Ba'al...
- Devi aspettare, Larish, ora non siamo noi a decidere.
Li sentivo ancora. Ancora. Erano dentro me, ancora dentro me! Svuotai con un sorso il bicchiere e per poco non presi in pieno la cariatide masticante, tirandolo sullo specchio dietro il bancone. Spazzai con una manata il piatto Lo specchio si frantumò, mi vidi in tanti frammenti. E non ero solo. Quasi trasparenti dietro le mie spalle, una nuvola viola appuntita e un toro giallo scuro guardavano tristi il mio viso infuriato nel riflesso dello specchio.
- Vi sento, bastardi.
Ba'al fece la stessa espressione che aveva quando spuntai dal suo petto, Larish si mise a piangere e sentii la loro disperazione, sentirono la mia rabbia. Raggiunsi con una mano la bottiglia più vicina, una vodka con l'etichetta ormai sbiadita. La cameriera, rifugiata sotto il bancone era riuscita, tremante, a prendere il suo telefono e ora stava chiamando la polizia. Aprii la bottiglia e ne presi un lungo sorso per calmarmi. Accesi un'altra sigaretta.
Ba'al cominciò a russare, Larish svenne. Almeno non reggevano l'alcool.

lunedì 19 gennaio 2015

Stati di depressione e whisky. 11

Sento scorrere la linfa di Larish, la mia ricambia quella sorta di bollente simbiosi. Con i piedi sul suolo niente mi sfugge se si muove, e molto si muove non lontano da qui. C'è chi ha sentito la nostra uscita, c'è chi si muove per incatenarmi ancora e io non voglio.
Conficco Larish sull'arido terreno intriso di rosso, la lascio andare con un po' di me addosso, le sue urla svegliano i resti umani che ora mi appartengono. Non avranno suono se non il mio, non avranno volontà se non quella che riceveranno da me.
Andiamo, perché l'Ombra arriva alla luce del sole con un altro esercito senza propria volontà. Andiamo perché Kruor non mi incatenerà di nuovo, andiamo perché i suoi complici non sopravviveranno. Adesso sei il primo, non ho fretta per gli altri. Larish, vieni con me. Melrahsher, mordi e brucia.
Aspettiamo che compaiano, in silenzio corriamo appena ci scorgono. Siamo davanti a loro. Davanti a Kruor, Ombra materiale. Forte Larish segue il mio braccio, con violenza trova solo vento. Il codardo si è abbassato, non combatte e scappa con il resto dei suoi tirapiedi. I caduti diventano tutti miei. Scappa terrorizzato, scappa ai confini della luce, dove le ombre si riparano. La terra ingoia le carcasse semivive che mi hanno servito. Possono andare, ma in me mi nutriranno e saranno sabbia. Cominciamo a camminare, cammineremo per tanto tempo, fino a che qualcuno non sarà degno di ospitarmi nel suo fragile essere mortale.
Risalii annaspando, sputando fanghiglia verde. Forse era chiaro, forse ero portatore sano di sfiga e avevo beccato l'unico vendicativo dio elementale della terra. Anzi: mi aveva beccato. Zephir sedeva con gli occhi chiusi sul pouf sabbioso e aspettava che mi trascinassi melmoso fuori dalla pozzanghera, profumato come un germoglio di merda. Socchiuse gli occhi:
- Ora conosci.
- Ora 'sticazzi. Come esco?
- Keshkesé è stato distrutto dalla frana che l'ha inghiottito, ha preso quel che poteva per ricostruirsi.
- Ti ho fatto un'altra domanda. E non era: “Ti scongiuro, mi racconti qualcosa di cui non me ne frega un cazzo?”.
Sorrise e non aveva denti. Sollevò il braccio light e puntò un dito non troppo carnoso verso l'uscita, indicando l'orizzonte. Un'enorme e nebbiosa colonna viola si ingrossava e tornava lentissimamente esile in lontananza:
- Devi andare.
- Almeno faccio qualcosa di diverso dal nuotare.
Mi ero stancato di quell'ex mercenario in pensione, e uscii senza salutare. Che maleducato che sono. Camminai con calma, e stavolta nessun “tatatata” mi seguì. Sentii più che udire le loro voci, ero già lontano una ventina di metri:
- Ascolta solo la tua rabbia.
- Buona della sorte che pensa a tu Jekepenra!
- Andate a fare in culo.
Non c'erano strade o sentieri. Avanzavo su massi gettati a caso da un architetto dislessico, affondavo nelle dune e andavo avanti, pensando a svariati modi per massacrare di calci quel culo franoso di Ba'al. Davanti a me cominciavano ad apparire le sagome rettangolari e mezzo sepolte della città che aveva inghiottito quel coso, prima di far incazzare gli altri cosi. Tutti edifici che non superavano i tre piani, trasformati in pietra o di pietra, poco mi interessava. Mi incuriosiva però il fatto che molti di questi erano stati quasi rosicchiati, più che erosi.
La mia curiosità però fortunatamente non è invasiva, e trova il modo di sparire subito.
Stavo per entrare nel deposito di case, il suolo sembrava essere più agevole e le strade erano comode. Il soffio del vento era l'unica cosa che accompagnava le mie riflessioni sulla vita e il non essere parsimonioso nel distribuire pugni a un certo grugno ocra. Era una frana costante, sommessa. Un sasso che rotolava trascinandone altri più piccoli. E arrivava dalla mia destra, dietro l'angolo di una casa a due piani. La terra si smosse come un'onda e una specie di lumaca gigante ne era la causa. Si fermò masticando e mi guardò. Gli occhi mi lacrimavano, il naso mi bruciava: puzzava tremendamente, un misto di putrefatto e scorregge. Mi guardava e masticava, masticava i muri e guardava me. Avrei dovuto procurare una maglietta con la scritta “velenoso”, anche se guardando il puzzomollusco, le possibilità di salvarsi sarebbero state assenti.
Scappo? Resto? Muoio soffocato? Merda.
Decisi di far finta di niente e cercare di resistere al fetore, cambiando strada per star lontano e continuare ad andare avanti. Piano, senza movimenti bruschi e con indifferenza, girai l'angolo a sinistra. Quella cosa mi seguiva, sembrava borbottasse e rideva ogni tanto. Mi voltai ed era a due passi da me, informe per il suo grasso di terra, e senza collo si allungava per guardarmi:
- Cosa diavolo vuoi?
- IoticonoscolosoperchéèpropriocosìAHAHAHAHAHAhaiunbuonodoredicucina!
- Se mi conosci, sai che non ho tempo e non mi va di stare qui. Addio.
-Latuaèunamancanzadifiducianondicobugiedaquandohopersotredicichilieorasonomagra.
- E prima com'eri? Lascia perdere, meglio che vada via, non riesco a respirare.
- GuardacheQrateeahnonpuzzaèunadisfunzionepercolpadellallergiacheho.
- Non mi interessa!
Cominciai a correre, non si era accorta che andavo via e continuava a parlare. Strisciava lentamente e ruttava, ancora qualche decina di metri e sarei stato abbastanza lontano per respirare di nuovo. Quella cosa doveva essere quell'unica che mangiava, secondo il barbavecchio e il granchio. La seconda che Ba'al aveva assorbito. Dopo un po' riuscii ad apprezzare l'odore della terra marcia: tutto era meglio di quella roba. Ripresi a camminare e sollevando lo sguardo, il colore violaceo dell'immensa colonna in fondo si faceva più nitido e meno lontano, altre costruzioni si avvicinavano, polvere scura si sollevava ai miei piedi. Migliaia di ossa si erano sbriciolate assieme alla sabbia e calpestavo cadaveri liofilizzati. A parte quei tre, nessuno abitava lo stomaco del Ba'astardo. Arrivai davanti a un palazzo circolare, molto più grande di tutte le casupole che avevo superato. Mi fermai e accesi una sigaretta, sbuffai fumo giallo cercando con gli occhi un passaggio. Anzi, cercando con l'occhio.
Le montagne iniziavano ai piedi dell'arena, qualcuno l'aveva scavata nella roccia, o semplicemente era stata avvolta da essa. Poggiai una mano sulla parete e si sgretolò: un buco irregolare come una porta epilettica apparve. Dovetti chinarmi per entrare, un piccolo tunnel si apriva in un anfiteatro semidistrutto. Scesi e passai dal centro per attraversarlo, mi fece quasi piacere non sentire neanche il vento, lì dentro.
Non fosse stato per quel grattare che veniva dai lati, mi sarei fermato per qualche ora, in pausa da tutti i rincoglioniti incontrati finora. In pausa...
Mi incazzai di nuovo e ripresi il viaggio. Il grattare era più forte, il pavimento si muoveva, monticelli si formavano attorno a me. Gettai la sigaretta contro una di quelle protuberanze, un foro si aprì e la prese al volo, mordendo quasi. Bene, un'altra cosa ottima! Diedi un calcio al mangiamozziconi e non si sbriciolò, si spostò lentamente all'indietro. Ormai erano centinaia. Scattai verso le scalinate, evitando i morsi dei mezzi busti che spuntavano a ogni mia falcata. Salii e trovai un corridoio che seguiva il perimetro delle rovine. Corsi tossendo, si facevano sentire le sigarette e la polvere respirata fino ad ora. Le cose mi seguivano, voltando la testa mi accorsi che erano loro la causa di quel grattare. Si muovevano scavando con zampe appuntite, teste con corpi di scorpione. Una fissazione.
Di tornare indietro non se ne parlava, potevo solo correre. Davanti, altre collinette spuntavano nel corridoio. Cazzo, ora sono fottuto.
Sputando tutta l'aria finta che avevo in corpo notai un'apertura più avanti, una nicchia scavata nel lato destro. Ma dovevo raggiungerla, e i testorpioni mi avevano quasi raggiunto, i più piccoli davanti si erano formati completamente e... Stavano scappando? I più grandi seguivano me, io correvo e gli altri scappavano da tutti. Uno dei più piccoli aveva perso una zampa, lo superai e sentii che quelli dietro lo divoravano senza fermarsi, portandolo con loro, trasportandolo e facendo rimbalzare con colpi di mascelle e mandibole il resto che rimaneva di lui. Svoltai all'ultimo momento, infilandomi in quella sottile apertura, scorticandomi il braccio. Non usciva sangue. Anche io avevo sabbia in corpo, sabbia quasi liquida. I merdosi continuarono a seguire le merdine, solo uno dei più grossi mi vide e cercò con un artiglio di prendermi per trascinarmi fuori, ma venne travolto dagli altri e divorato anche lui, come capii dai rumori diversi dalla loro corsa.
Salvo. La nicchia continuava, stretta come il mio culo poco fa. Strisciando di profilo, uscii come un tappo dopo qualche metro. Mi aveva accolto una grotta verde e viola. Il verde, come al solito, veniva da una di quelle pozzanghere che tanto vanno di moda in questi giorni di merda. Il viola brillava da varie vene che striavano la pietra delle pareti. Che sia...? Ne sfiorai una con le dita, aveva la consistenza di una gelatina ricoperta da glassa. Mi venne istintivo stringerla in una mano e strapparla. Un fischio lontano... No, erano delle grida. Venivano dalla vena.
Avevo trovato le radici di Larish.
Ne morsi una e inghiottii. Pessimo sapore, sapore di gemiti e dolore. La sabbia che usciva dalla ferita al braccio divenne rosa.
Ba'al guardò Melrahsher:
- Non hai sentito niente?
- Sei vecchio, ti sta cedendo l'udito.
- No, era una specie di strappo.
- il tuo intestino, probabilmente.
- Torna a dormire, aspettiamo.
Ora dovevo trovare il piatto forte, un assaggio non mi sarebbe servito a niente. In alto, sul soffitto della grotta, un puntino giallo. Niente di semplice, qui...
Era stretta abbastanza da potermi arrampicare facendo leva su braccia e gambe. Ogni tanto mi sarei potuto riposare. Mi misi al centro e allargai le braccia, un piede su una parete e mi issai, cadendo immediatamente nella pozzanghera, che per fortuna non era profonda. Dovevo ancora recuperare le forze dalla corsa. Cercai di togliermi di dosso la melma verde con delle manate, e così facendo qualche goccia mi andò sulla ferita.
Un capogiro mi fece poggiare la schiena sulla parete. Sentii caldo, vidi fiammeggiare un corpo, un corpo femminile. Mi vide, cercò di toccarmi e con la mente allungai una mano. La mia mano era pietra. Mi sfiorò, dal nostro tocco caddero delle gocce. Gocce verdi. Ora si spiegava tutto: le pozzanghere erano il risultato del contatto tra i due spiriti.
Avevo un altro modo per far male a Ba'al, un altro metodo per fargli capire che aveva fatto incazzare il figlio di puttana sbagliato.
Riuscii ad afferrarle meglio la mano, e sperando mi riuscisse a sentire o vedesse almeno le mie labbra muoversi, urlai:
- Mangia, se vuoi uscire! Mangia Melrahsher!
Mi guardò come non capisse, poi sorrise e annuì.
Lasciandola, vidi che cercava di bere e beveva fuoco, le fiamme e la lava che beveva non si formavano più. Si dissolse piano.
Riaprii l'occhio e guardai il soffitto: stavo per uscire.

lunedì 14 luglio 2014

Stati di depressione e whisky. 10

- Cosa?-
Avevo intuito che in questo posto si sarebbe potuti andare fuori di testa, ma non avrei mai pensato così tanto.
- Hai detto che non provate rabbia, ma eri incazzato.-
- Imitavo te.-
- Dove mi hai sentito?-
Keshkesé andava freneticamente in giro attorno alla casa-collina, cercando non so cosa, fermandosi e scavando buche con le sue zampe umane. Zephir mi fece segno di seguirlo alla grotta verde. Salimmo insieme un lieve pendio e arrivammo a casa sua, o quello che era. La luce verde proveniva da due pozze di melma che ribolliva densa e puzzolente. L'odore era simile a quel marcio che avevo sentito appena uscito da dov'ero arrivato.
In mezzo alle pozze una stretta panca con una roccia su un lato. Poteva essere un letto pietrificato, o una bara di terra senza coperchio. Il barbabianca si sedette e mi mostrò un masso davanti a una pozza. Anche i pouf sono di pietra e sabbia qui. Ci abiterei in un monolocale del genere: pieno centro deserto, luce verde puzzolente e ribollente, letti e cuscini di pietra, equo canone. Meglio del mio “appartamento”.
Il vecchio chiuse le palpebre, il “tatatatata” di Kesh in sottofondo, e subito chiesi:
- Come mai questa fissazione di mangiare ogni essere vivente e demoniaco vi si pari davanti?-
- ? l'unico modo.-
- Quindi vi uccidete a morsi. Ottimo. Hai da bere? E devo fumare.-
Appena finii la frase, Kesh corse immediatamente verso di me e mi porse sigarette e accendino, che non avevo raccolto. Sollevai un sopracciglio verso di lui e presi tutto. Accendendo una sigaretta, il granchietto fuggì da qualche parte e Zephir riprese il discorso:
- Non ho detto di ucciderli, non si può.-
- Interessante. Hai da bere?-
- Non beviamo o mangiamo qui. Non noi. Solo una.-
- Uno spasso!'Solo una' che cosa?-
Si alzò senza rispondere, prese da terra qualcosa che somigliava a una ciotola che stava attaccata al suolo. Era l'arredamento più spartano e pratico che potessi immaginare. Ti serve qualcosa? Staccala da terra. Kesh si fermò a qualche metro da noi e non so come, si sedette piegando le bracciazampe come se fosse stato un ragno. Ci osservava e aspettava qualcosa. Zephir si avvicinò a una delle pozze e riempì la ciotola colmandola, immergendo il braccio buono fino al gomito.
Mi porse la brodaglia.
- Bevi.-
- Non dovresti prima invitarmi a cena fuori?-
Continuò a guardarmi senza espressione, la ciotola in mano.
- Ok, ma qualche salatino si poteva rimediare.-
Afferrai il gustoso drink e lo annusai. Sapeva di sigaro spento in un vino scadente.
- Tutto.-
- Solo perché è gratis.-
Poggiai le labbra sul bordo e buttai con forza quella roba a terra, distruggendo il contenitore. Era bollente, e anche se non faceva male mi aveva fatto incazzare il comportamento di quel barboso sottuttoio taciturno. Mi alzai di scatto, ma non sapevo cosa fare. Rimasi in piedi e lo fissai, mentre fulmineo si toglieva quello straccio che gli faceva da mantello e me lo faceva vorticare attorno al collo. Stretto in quella presa sentii la pressione di una forza che un tempo era crudele, smussata dalla pietà nel corso del tempo. Perché lo sentivo? Mi fece cadere con la faccia a qualche centimetro dalla pozzanghera fumante di fango diluito, tirò e trascinò senza sforzo la mia carcassa frenetica nel cercare di togliere quella sciarpa troppo ermetica. Sollevò e lasciò la presa, ma ormai ero dentro il verde puzzolente. Tolse con un gesto la catena di pelle e mi vide annaspare e sputare. Puro istinto, non avevo paura e sapevo di non poter morire perché ero già morto due volte. Ogni volta muoio e credo di morire. Ogni volta mi risveglio e aspetto di morire. Il verde e la sabbia mi coprirono la vista monoscopica e annegai. Intanto che cadevo, mi chiesi dove diavolo Kesh avesse trovato le sigarette.
Aprii gli occhi. Era il tramonto. Niente sabbia, niente ocra. Ero la sabbia, ero la terra, ero le rocce e le montagne. Dovevo uscire, trovare il modo di andare. Per troppi secoli sono stato chiuso qui a essere calpestato, bagnato e scavato.
Solo perché voglio un mio posto e un ruolo, una ragione d'essere. Chiuso col fuoco e la terra dalle Ombre, dal Cielo, dall'Aria e dai giovani animali loro servi. Perché loro possono essere e io no? C'ero prima di loro, prima di tutto! Mi rivedranno e li farò cadere.
Cos'è questo suono, questa vibrazione? Sono piedi, sono urla, è dolore e furia. Devo averla. Provo a muovermi, a scuotermi. Ho preso qualcosa! Si muove, si muove forte ed è incastrato. Lo assorbo e riesco a muovere per prendere. Questo è mio, tutto.
Lo inghiotto. Divento carne e ossa, riesco a camminare. Ho la barba e le gambe, ho distrutto solo un braccio. Davanti a me corpi distesi e rossi, la spada che brandivo riposa nel petto di un cadavere. Chi era è dentro me e ho i suoi pensieri. Zephir? Hai soldi ora, Zephir? Sei riuscito a farti pagare per uccidere e soddisfare la tua sete di sangue? Sei contento di aver raffreddato la tua spada nel sangue? Sono te e non sono te, mi hai dato il tuo corpo e ho scoperto come uscire. Mi volto e delle urla di agonia mi fanno sorridere: anche lo spirito mio compagno ha trovato il modo. Ha preso interamente un corpo, non avrà la menomazione di un braccio scorticato da una frana. Mentre quella donna prende fuoco, il fuoco prende forma.
Ci guardiamo. Lei è pronta, io no. Devo avere altre cose che non ho. Riesco ancora a muovermi come terra e non parlo. Davanti a me intuisco la presenza dell'ingordigia e della pazzia. Cadono le rocce, cade l'ultima cosa che posso controllare fuori di me. Ho preso una donna enorme che non smette di mangiare, un ragazzino che parla da solo. Sono dentro me e li terrò fino a che non troverò di meglio, fino a che non li eliminerò. Dentro me avranno tutto, compresa la città che ho ingoiato prima di essere esiliato dalle future vittime della mia rabbia, ora presente e di cui sono stato privato. Melrahsher mi sorride. Avanzo ed estraggo la spada, nella quale infondo un po' di me. Perde volume, rimane tagliente e prende ogni cosa da quel corpo in cui giaceva. Ora è mia e sono io, deve stare in me e non si separerà dalla mia pelle, condividerà le sue prede e le darò le mie. Come l'esercito che mi servirà è formata da me. Lei è Larish.
Io sono Ba'al.
Sento scorrere la linfa di Larish, la mia ricambia quella sorta di bollente simbiosi. Con i piedi sul suolo niente mi sfugge se si muove, e molto si muove non lontano da qui. C'è chi ha sentito la nostra uscita, c'è chi si muove per incatenarmi ancora e io non voglio. Conficco Larish sull'arido terreno intriso di rosso, la lascio andare con un po' di me addosso, le sue urla svegliano i resti umani che ora mi appartengono. Non avranno suono se non il mio, non avranno volontà se non quella che riceveranno da me. Andiamo, perché l'Ombra arriva alla luce del sole con un altro esercito senza propria volontà. Andiamo perché Kruor non mi incatenerà di nuovo, andiamo perché i suoi complici non sopravviveranno. Adesso sei il primo, non ho fretta per gli altri. Larish, vieni con me. Melrahsher, mordi e brucia.
Aspettiamo che compaiano, in silenzio corriamo appena ci scorgono. Siamo davanti a loro. Davanti a Kruor, Ombra materiale. Forte Larish segue il mio braccio, con violenza trova solo vento. Il codardo si è abbassato, non combatte e scappa con il resto dei suoi tirapiedi. I caduti diventano tutti miei. Scappa terrorizzato, scappa ai confini della luce, dove le ombre si riparano. La terra ingoia le carcasse semivive che mi hanno servito. Possono andare, ma in me mi nutriranno e saranno sabbia. Cominciamo a camminare, cammineremo per tanto tempo, fino a che qualcuno non sarà degno di ospitarmi nel suo fragile essere mortale.

sabato 1 febbraio 2014

Stati di depressione e whisky in sclero numero 9.

Allargai le braccia per capire dove fossi. Non vedendo nient'altro che polvere gialla, avrei dovuto affidare tutto a tatto e udito. Nessun suono, un silenzio che assordava. Fanculo l'udito, solo il tatto. Un ultimo controllo per sentire se non avessi dimenticato niente da attaccarmi addosso e ripensai ai vecchi cartoni animati giapponesi, sentendomi un robot componibile. Mi sarebbe piaciuto un sacco avere un'arma di quel tipo addosso. Che so, magari un pene fiammeggiante o chissà che. Attenti, arriva Jack col suo cazzo spaziale roteante! I nemici sarebbero stati fottuti letteralmente.
Feci qualche passo a tentoni, mi sembrava di dover imparare a camminare di nuovo. Il palmo destro sfiorò qualcosa che si sgretolava e mi avvicinai a quella che somigliava a una parete. Con tutt'e due le mani tastai quel fragile muro e cercai di seguirlo un po', camminando lateralmente, attaccato per non farmelo scappare. Sentii una sorta di rientranza, un pezzo mancante troppo regolare per una superficie così incasinata. E vediamo cosa c'è dentro. Infilai prima la mano, poi il braccio. Era poco più largo del mio arto sinistro e sfioravo qualcosa di mobile, brulicante... Graffiai un po' e schiacciai roba croccante e umida, dei biscotti vivi. Bleah. Allungai ancora stendendo la spalla e trovai tre fessure, di cui mi accorsi solo dopo averci infilato le dita e averle sentite mordere da qualcosa che non mi lasciava e mordeva più forte. Un click leggero e ritirai il braccio di scatto. Non potevo guardare le dita, ma pulsavano sui polpastrelli. Scossi la mano e la sensazione sparì immediatamente.
Continuai a tastare il muro e un soffio mi colpì il viso. Continuai a seguirlo. Dopo un minuto il giallo dell'aria si fece più chiaro e luminoso, quel tipo di luce che si vede quando è nuvoloso e le nuvole si fondono con l'asfalto. Piano piano i confini delle cose si fecero quasi nitidi, c'era un'apertura più avanti e potei staccare le mani dal muro.
Un altro passo e uscii all'aria aperta. Aperta... Insomma.
Ora vedevo di nuovo, ma sempre quel cazzo di ocra in tutto. Sembrava un deserto enorme in una stanza. Qualche edificio di sabbia, lontano delle colline e attorno, chilometri e chilometri lontano, degli anelli enormi e sfocati per la distanza, che si chiudevano come se si guardasse un anfiteatro dal basso. Non so chi avesse creato questo posto, ma come arredatore faceva schifo. Chiusi l'occhio e respirai a fondo puzza di terra arida e marcia insieme. Mi si stapparono le orecchie e l'udito tornò per sentire un vento costante e sommessamente ululante. Feci qualche passo ancora e notai che le pareti dell'anfiteatro non cambiavano di prospettiva: troppo lontane. Solo, meno sfocato, qualcosa davanti a me, una giuntura tra gli anelli enormi. Viola scuro, una colonna gigantesca che li teneva uniti. Anzi, che li penetrava in un punto preciso.
Ora, che cazzo di agenzia di viaggi usava Ba'al? Gliel'avrei chiesto dopo averlo riempito di calci in culo. Nessuno mi può mangiare!
Prima domanda: dov'ero finito? La logica, ammesso che ce ne fosse stata una, suggeriva che fossi finito dentro la statua mangiapersone rottainculo facciadimerda. Mentre riflettevo e camminavo, uno scalpiccio attirò la mia attenzione. Mi fermai e guardai attorno: un punto ondeggiante si avvicinava. Presi una pietra come arma e la tenni dietro la schiena. E ora chi cavolo era? Se non potevo star solo neanche per i cazzi miei... Veloce come un ghepardo che scorreggiava proiettili di tabasco, una figura rossa si avvicinava a me trascinando polvere e terra coi suoi... Piedi? Appena riuscii a capire cosa fosse, vidi un tronco umano senza braccia, poggiato su cinque cose che sembravano gambe divaricate, ma che poi scoprii essere tre gambe e due braccia. Piedi e mani toccavano per terra, venivano usati come zampette frenetiche. Non aveva pelle se non in testa, per questo era rosso. Si fermò quasi istantaneamente a un metro da me, mi guardò inclinando il capo, sulla cui cima aveva attaccato un orecchio. Che schifo. Mosse un braccio-gamba e provò, in silenzio, a toccarmi avvicinandosi lentamente. Tirai fuori la pietra e feci per tirargliela addosso:
- Non ti avvicinare, granchio scotto!-
Bloccò la protesi e continuò a scrutarmi. Una voce esitante, roca e acuta:
- Tu... Io Keshkesé.- Si colpì il petto con un piede.
- Non capisco il granchioscottese.-
- Mi name, Keshkesé. Arriva tu del poco stai qui.-
- Aspetta. Tu ti chiami Keshke...-
- Sé.- Annuì con forza.
Abbassai la pietra, ma non la lasciai. Non sembrava cattivo, ma il mio istinto mi aveva procurato troppi guai per seguirlo ciecamente. Anzi, orbamente.
- Ora che so il tuo nome, posso continuare a non interessarmene. Addio.- Girai i talloni.
- No! Sta tu! Jekepenra nosce!-
Sollevai il sopracciglio sull'occhio sano e mi girai. A quanto pare nell'universo ero l'unico che non si conosceva:
- Ho capito solo “no”- Mentii.
- Sa Jekepenra capissa Keshkesé. Vuoi chiede e nosce?-
- Perché sai chi sono?-
- Vento de muri lontane parla voce da te, capta di elo. No spaventera perme? -
- Senti, già sto facendo una fatica immensa per capire che cazzo stai dicendo: ho l'impressione di ascoltare radioscarabeo. Cos'è che i muri parlano di me?-
- No spaventera perme?-
- Mi fai schifo, ma ho visto e sentito peggio sulla pelle.-
- No spaventera perme? No, già chiestato. Na, muri dice con voce tua! Ecco, dice tua! Primissima parla con mina!-
- Eh?-
- Anni passa, ultimo Jekepenra qui. Moltanti sono ante Jekepenra.-
- Va bene, sono l'ultimo arrivato. Molto poco interessante. Ciao-
- Kesh comte.-
- Senti, non mi sopporto neanche da solo.-
Buttai la pietra e andai avanti, passando accanto al picasso umano. Mi cercò di afferrare un braccio e lo fermò come se si fosse ricordato qualcosa di importante. Camminava veloce intorno a me, guardandomi e seguendomi col “tatatatata” dei suoi passi. Passarono almeno venti minuti di “tatatatata” mentre avanzavo. Non sapevo dove, ma dovevo muovermi e andare.
- Hai una sigaretta? Anche una da granchio può andare.-
Si eresse come un suricato e scattò di lato, correndo come prima. Mi guardai intorno e non vidi niente che potesse essere un pericolo. Sparì dalla mia vista per un secondo o due e ancora di nuovo un polverone verso di me. Tornò, si fermò frenando con le mani piedate e mi porse un pacchetto di lucky strike e uno zippo con un piede. Ma che diavolo...
- Conserva quando tu venuto!-
- Su, parla.- Accesi una sigaretta. Mi tastai per trovare una tasca, e purtroppo avevo solo una larga fascia a coprirmi i fianchi. Ma cos'era? Cuoio leggero forse.
- Piace pella?-
- Aspetta... Cosa?-
- Piace pella? Messa grotta che tu veda e toglie-
Mi cadde la sigaretta dallo stupore:
- Quindi per mutande ho...-
- Mina schiena.-
Che schifo bis. Ok, è a posto. Si è privato della sua pelle per me. Ma perché?
- Aspettaviamo Jekepenra! -
- Perché?-
- Frega e incazza Ba'al molte volta, noi accetta. Tuno.-
- Ha mangiato anche te, dunque.-
- Kesh e Zephi e Qrateeah che fa spù e Kruor che prende gamba di elo e Argo che squaglia e no più ma dolore sentiamo e Jekepenra che arrabbia. Uno che solo come è tranne occhio perduto.-
- Fai una pausa che non capisco una sega!-
- Ba'al mangia Zephi prima e Qrateeah e Keshkesé e Kruor e Argo e tu.-
- Ha il vizio, allora. Tu da quanto sei qui?-
- Non dica certo certo certo certo, tempo funziava niente qua, niente nero scande giorno. Mooooltissimo che vede perterra cambia come guarda.-
- Ah. Qualcuno parla decentemente qui?-
- Zephi parla poco, dica si no e poco. No Qrateeah, molte e bugie. Anda Zephi?-
- Decisamente.-
Indicò una collina alla mia destra, si e no mezz'ora di “tatatatata”. Avevo acceso un'altra sigaretta, tenevo il pacchetto in mano, nonostante Keshkesé si fosse offerto di tenere tutto per me. Dopo un po' arrivammo a una collina che collina non sembrava. Era troppo levigata. Dovetti girarle attorno per scoprire una grotta illuminata di verde pallido e segni di pietre incastonate una sull'altra. Era una casa, costruita alla bell'e meglio. Su una sporgenza sedeva un uomo con la testa china, barba lunga bianca e capelli cortissimi e neri come la pece. Anche lui aveva della pelle come abito che copriva maggior parte del suo lato sinistro. Era muscoloso ma non enorme, sembrava che pensasse intensamente. Keshkesé urlò il nome che mi aveva detto gli appartenesse. Un sospiro profondo e sempre più forte rispose furioso:
- Sono Zephir!-
Si alzò e fece un salto verso noi due. Atterrò in piedi e mi guardò a una spanna di distanza, era alto quanto me e vecchio come una tartaruga. Mi colpì senza forza lo stomaco e mi scaraventò a qualche metro di distanza, piegandomi in due. Rotolai e mi fermai strisciando sulle mani. Perché tutti mi colpivano o mi facevano schifo? Mi rialzai, qualche manata per scuotermi via la polvere di dosso e con ancora le sigarette in mano, corsi a testa bassa verso di lui. Avrei trovato magari una valanga di botte, ma non mi deve toccare nessuno!
Si spostò all'ultimo momento, poggiai il piede destro davanti a me per fermarmi e tirai sempre col braccio destro un gancio che lo colpì sulla spalla. Mi caddero le sigarette e lo zippo dall'altra mano. Non si mosse, il pugno era fermo sulla sua spalla e gli cadde la pelle che lo copriva. Tutto il corpo era normale, il braccio sinistro era senza pelle e carne, solo ossa inermi:
- Ti sei fatto male?- Chiese senza scomporsi, calmo.
- No.-
- Neanche col pugno di prima?-
- No... Ma mi hai toccato e mi fa incazzare.-
- Io no ferma lui prima con mano e ricorda no tocca Jekepenra!-
Ecco perché non mi aveva fermato Keshkesé, quando l'avevo incontrato... Ma come lo sapevano?
- Neanche noi sentiamo dolore. Neanche rabbia. Tu si.-
- E...?-
- E ora devi mangiare.-
- Non ho fame.-
- Devi mangiare Ba'al.

Jack

venerdì 1 novembre 2013

Le cose belle non devono avere una fine.


Stavo ragionando sul fatto che il 50% delle volte che comincio qualcosa mi capita di lasciarla a me-





-tà, e quando riesco caparbiamente a superare la metà, il 99% delle volte non finisco quello che stavo facend.

"Forse dovrei cominciare qualcosa dalla sua fine" mi son detto. Ok, titolo provvisorio del post: "Manoscritti scritti con i piedi", una semplice storia raccontata dalla conclusione, con inizio-finale a sorpresa ma con la particolarità, non da poco, di essere scritta male.
Ci ho ripensato, non vedo il motivo per cui dovrei snaturarmi.
Quindi come sempre tratterò argomenti che possono risultare interessanti senza arrivare ad una conclusione logica, un po' perché non c'ho voglia e un po' perché le cose belle non devono avere una fine. Se proprio volete, ve li approfondite da soli.

Il tema che affronterò oggi è la ricerca di un lavoro. In questo periodo è sempre più difficile beccare una buona occupazione, soprattutto se non si è in possesso di una laur... ehm... "accozzo", ottima capacità, esperienza e faccia da culo. Esistono alcuni canali dove è possibile informarsi sulle offerte di lavoro. Quasi sempre si tratta di lavori sottopagati ma affrontabili da tutti e che ti danno la possibilità di mettere in tasca quattro soldi.

Tra i vari annunci ce n'è stato uno che mi ha incuriosito parecchio in cui si cercava un "Cliente misterioso". Sinceramente non l'avevo mai sentito prima. In poche parole, una ditta con interesse di sapere cosa combinano i propri dipendenti, ingaggia queste persone che devono fingersi clienti e importunarli nel lavoro. Una storia di auto-spionaggio...

Primo giorno di lavoro, il mio compito è: "Fingere di essere un turista inglese e sgamare il commesso riguardo il suo presunto curriculum taroccato."

«Good morning.» faccio io, col mio block notes da spia inglese in mano.
«Eh gudmorning... Inglish?» mi fa il commesso.
«Yes, what does your sister do after dinner?» (trad. cosa fa tua sorella dopo cena?)
«Eh schiusmi... no spik inglish... Mi dica.»
(scrivo: 1/questo non sa l'inglese)
«Sorry, parlo poco italiano. Vorrei sapere quanto viene quel cavolfiore.»
«Mi scusi ma noi non vendiamo cavolfiori. Quello è un pallone da calcio.»
(2/però è preparato)
«Well... Allora me ne dia 2 chili.»
«Signore, non vorrei sembrare scortese ma noi non vendiamo i palloni al chilo.»
«Ah no?»
«Eh no...»
«E quanto pesa quel pallone?»
«È un pallone omologato, peserà attorno ai 450 grammi.»
«Ok... Può pesarmelo?»
«Al momento la bilancia pesa palloni non funziona...»
(3/non fa bene il suo lavoro)
«Va bene, dickhead? Quanto costa?» (trad. testa di cazzo)
«36 €.»
«Quindi quanto costa al chilo?»
«Non lo so.»
«COME SAREBBE A DIRE CHE NON LO SA??? - e lì, tolta la maschera da cliente, dico: - BENE BENE! Lei nel curriculum millantava di conoscere l'inglese, di avere un Master in Finanza Avanzata e ora non mi sa dire quanto costa quel pallone al chilo?!»
«Ma lei come lo sa?»
«Tempo scaduto, la risposta giusta era 80 €/kg. Comunicherò tutto al principale dell'azienda.»
«Ma io...»
«Ma io un cazzo.»
«Ma io - dice togliendosi la maschera - sono il titolare dell'azienda. È stato bravo, ma non posso assumerla visto che mi ha insultato ripetutamente in due lingue diverse. È licenziato.»
«Merda.»

....

Sento una vibrazione, un fruscio nervoso, qualcosa che sembra avvicinarsi partendo da lontano. Una moto, ecco, dovrebbe essere una moto a tutta velocità. No cazzo, è una zanzara che cerca di pizzicarmi l'orecchio. Odio le zanzare. Il prossimo post a metà lo dedicherò a loro e ai metodi per eliminarle definitivamente. O per attirarle tutte a casa vostra, così finalmente potrò risolvere il mio problema.

Per cui riprendendo l'argomento da me in realtà mai affrontato, ci tenevo a confermarvi in maniera poco usuale, o per dir si voglia consueta, l'affetto che provo nei vostri confronti.

Cordialmente.

Andre.

sabato 12 ottobre 2013

"Se lo sapesse MacGyver". Una storia d'orrore, sangue, mistero e bricolage.


Abito in un bell'appartamento, provvisto di tutti i comforts: acqua corrente, corrente elettrica, corrente d'aria, zanzare domestiche, balcone con panorama su grotte per barboni, gatti indemoniati e cacche di cane. Un idillio con clima mite e temperato: fa freddo d'inverno e caldo d'estate. La brina ghiacciata di dicembre si scioglie a luglio, con l'arrivo dei monsoni. E questo succede prevalentemente in cucina.
Certo, ogni tanto capita un piccolo inconveniente... È normale che una lampadina si fulmini, che lo scarico del lavandino si otturi, che ci sia una perdita d'acqua dalla parete del bagno e si sia costretti a cagare a bordo un windsurf.
Per le piccole cose si rimedia da soli, è logico. Il problema non è aggiustare le cose, ma procurarsi gli attrezzi necessari per farlo. E qui inizia l'ordalia.
È notte e decido di andare in bagno. Non perché ne ho bisogno, è chiaro, ma perché alle tre del mattino le blatte mi hanno promesso che avrebbero guardato con me l'ultimo film di Harry Potter, con il DVD contenente le scene tagliate in cui Ron Weasley cerca di far tornare i conti del 740 usando una calcolatrice babbana. Entro in bagno con i pop corn e premo l'interruttore: il buio si fa più intenso: la lampadina è così fulminata che assorbe i riflessi dello schermo del notebook di Peripla, il capo delle blatte con cui ho un rapporto di reciproco rispetto e stima. La situazione rischia di degenerare, le torce e i forconi spuntano dalla finestra, la folla inferocita di barboni che vogliono guardare il film si agita e qualcuno accende delle molotov di tavernello. Una flebile voce sussurra impaurita dal retro del lavandino: "C'è il bagno di servizio". È Spurdugnagna Junior, figlio di Spurdugnagna Senior, ragno da bagno part time. Le voci si acquietano, ci si sposta e la serata può continuare, il tavernello viene spento.
Il film non era granché, ma come arriva la mattina è ora di procurarsi il materiale da accomodamento, cioé una lampadina e un croissant. Esco, trovo subito il ferramenta e chiedo un croissant. Il ferramentaiolo o ferramentivendolo sorride e mi chiede se lo voglio al cioccolato e rispondo di no, se no mi va a finire sui fianchi e come abbellimento dei pantaloni non è il massimo. Con i pretzel invece sono uno schianto.
Mi domanda se mi serve altro e si, mi serve una lampadina. A questa richiesta il venditore si fa torvo, cupo, asessuato. Sul suo viso compare un alone di tenebra, le fiamme lambiscono le sue vesti e urla di agonia mista a canti gregoriani apocalittici aumentano di intensità mentre urla:"Ad attacco largo o fine?". Un braccio insanguinato spunta da dietro il bancone e ticchettando sul tavolo con le dita, cerca di comunicarmi in codice morse che quelle ad attacco largo sono terminate. "Mi serve ad attacco fine", e come d'incanto non cambia assolutamente niente, le fiamme continuano a incendiare il ferramentaiolo o ferramentivendolo e il braccio mi parla ora del più e del meno, chiedendomi se preferisco addizioni o sottrazioni.
Una scatolina di legno intarsiato con strani segni fluttua nell'aria, abbandonando uno scaffale composto di ossa umane e cd dei ricchi e poveri. il ferramentaiolo o ferramentivendolo solleva la mano e la scatolina si apre, rivelando al suo interno un'altra scatolina sul cui lato superiore spunta uno schema di sudoku. Il braccio afferra una demoniaca penna bic, maledetta da Mefistofele in persona, che per questo scrive a tratti. Dopo pochi giorni riesce a completarlo e la confezione si apre, quindi posso prendere la lampadina e pagare. Varco l'uscio tremante, ma una forza sovrannaturale mi afferra la spalla, i piedi vengono bloccati da melma sulfurea e mi accorgo che non posso più muovermi perché non ho preso lo scontrino. Prendo lo scontrino e sono di nuovo fuori, il braccio insanguinato ticchetta un:"Grazie e arrivederci".
Arrivo a casa, apro la porta del bagno, ma è occupato e aspetto. Si libera, entro, spruzzo il deodorante, esco e aspetto ancora. Rientro, svito la lampadina fulminata, avvito il croissant e addento la lampadina. Torno fuori, vado al pronto soccorso, mi rimuovono il vetro della lampadina e scrivo un appunto:"Croissant: mangiare. lampadina: avvitare".Ritrovo il ferramenta e si ripete la storia di prima, il braccio era in pausa pranzo e c'era il cugino gamba che per carità, è una parte di una brava persona, ma non è la stessa cosa. Esco deluso. Di nuovo a casa, di nuovo in bagno. Respiro piano e svito il croissant di prima. Sudo freddo mentre avvito la lampadina. Provo a premere l'interruttore. Si accende. I barboni esultano, le blatte si abbracciano piangendo commosse e Spurdugnagna Junior mi sorride. Sono fiero di me e mi compiaccio con i pugni sui fianchi.
Anche questa è fatta, mi merito una lampadina al cioccolato.

Jack.